Ci eravamo congedati da Deison in seguito ad una corposa intervista accompagnata dal mixtape PORTRAIT#4, in cui la sua carriera ventennale veniva esplorata ampiamente, lasciando spazio anche a qualche commento sul suo rapporto artistico con Andrea Gastaldello, alias Mingle. I due hanno intrapreso una collaborazione sfociata in una trilogia di dischi – ai tempi dell’intervista erano stati pubblicati i primi due – in cui il carattere cinematico, quello ambientale e quello industriale dialogano armoniosamente. Una breve digressione prima di affrontare il discorso Innersurface:
Il primo lavoro – Everything Collapse(d) – era il ritratto cinetico di un mondo in declino. Vi era del ritmo in quella lenta ma inesorabile distruzione, il ritmo delle macerie che crollano e delle nuvole di polveri che soffocano l’orizzonte. Il lavoro sfumava tra il grigio e il nero, tutto collassava in un’apatia totalmente estraniata, un’inerzia comunque statica. Il tema principale era il flebile movimento discendente della caduta. Si attendeva il terzo capitolo per capire se Weak Life – il capitolo secondo – comprendesse anche la speranza, o se quella debole vita fosse solo una fugace illusione dell’immaginazione. La chiusura del secondo album non faceva di certo presagire la prima ipotesi, non suonava sicuramente come un encomio verso la rinascita: erano piuttosto i suoni di una vita intubata, dal respiro affannoso, annaspante. La debole vita era ciò che ancora era sopravvissuto alla catastrofe di Everything Collapse(d), ciò che lentamente è andato ora spegnendosi. Che poi bastava lasciare scorrere i silenzi dell’ultima traccia per ascoltare la cover di Circle of Shit dei Godflesh. No, spazio per la speranza sembrava non esserci nella musica del duo.
E giungiamo al terzo, e ultimo capitolo, della collaborazione Deison / Mingle, in uscita per la neonata ST.AN.DA.. Riguardo ad esso, Deison annunciava: “Il prossimo capitolo, che sarà l’atto conclusivo di questa trilogia, si intitolerà InnerSurface, e rappresenterà la caduta in un buco, quindi nessuna rinascita, ma si entrerà nelle profondità, in un mondo buio, sporco e maleodorante, buche ricolme di fanghi e liquidi industriali in cui tutto è denso, greve. Il movimento fisico si interrompe, rimane il caos nella testa, ci si guarda attorno, con fatica, e tutto è irreversibilmente cambiato“. Il disco, che esce oggi per la neo-nata ST.AN.DA, è già disponibile all’ascolto: vi invitiamo a scorrere fino al fondo dell’articolo.
Innersurface significa superficie interna, e in copertina campeggia l’istantanea in bianco e nero di un bosco. È un’immagine che merita qualche considerazione, vista l’opposizione tra il significato a prima vista speranzoso della natura e la caduta nel mondo buio preannunciata dalle parole di Deison. Il concetto di superficie interna sembra spingerci a guardare alla foto osservandone i diversi livelli visivi, in quanto in primo piano, in forma di cornice, vi è un primo strato di vegetazione, mentre al centro, più lontano dalla luce e dall’occhio dell’osservatore, la vegetazione è più densa e buia. Nelle Meditazioni Del Chisciotte, scriveva Ortega y Gasset che in un bosco, la missione degli alberi patenti è quella di rendere latenti gli altri, e che in questo gioco di superfici è assurdo pretendere di possedere la visione del bosco. I più non avvertono che il profondo, per essere tale, si occulta dietro la superficie e si presenta solo attraverso di essa, palpitandone al di sotto. In questo senso, “niente è più illecito del rimpicciolire il mondo con le nostre manie e cecità, sminuire la realtà, sopprimere immaginariamente pezzi di ciò che è. Questo accade quando si chiede al profondo di presentarsi allo stesso modo di ciò che è superficiale“.
E se la nostra spinta al progresso e alla tecnica conduce all’illusione di credere di poter sezionare la realtà e disvelare anche le ragioni del profondo, saremo condannati a non vedere più «né il profondo né la superficie, ma una perfetta trasparenza, ovvero nulla». In questo senso possono essere lette le parole di Deison, quando dice che ci si ritrova in una situazione di caos senza apparente via d’uscita; con la caduta, la profondità in cui si è entrati non è quella arcana del bosco e del suo gioco di superfici, ma il suo rovesciamento, il profondo inferno del nulla che divora le nostre illusioni antropocentriche. Viene allora da credere che forse lo spazio per qualcosa di simile alla speranza, lo spazio di un’azione umana, è ancora possibile, nonostante – e solo in virtù – della caduta e della presa di coscienza di ciò che l’ha causata. Ed è la grande domanda che pervade l’ascolto: sapere di avere perso qualcosa per sempre può avere conseguenze che si ergano al di là della semplice constatazione della caduta? Vi è qualcosa al di là delle macerie? Tenendo in mente tale quesito, veniamo ora alla parte più musicale, e l’analisi non può dunque esimersi da un’attenzione narrativa verso il susseguirsi delle tracce, dalla prima a quella conclusiva, osservandone il dispiegamento.
Il benvenuto è nel segno dell’inquietudine, con gli oscuri droni sotterranei e i glitch di Breach, che evolvono in una funerea melodia per una fine. Nulla d’organico palpita più, lo scenario si apre tinteggiato di nero. I loop di Petrolio innalzano progressivamente la velocità, ma è un dinamismo appesantito, autenticamente industriale; sembra che in questa distopia le macchine procedano da sole, prescindendo dall’elemento umano e senza più l’opposizione di quella natura – di cui l’uomo si è alla fine scoperto parte – oramai avvelenata. Hole ha qualcosa dei primi Raime, con il suo groove macchinoso e inesorabile, ma staglia per la varietà di effetti e sample utilizzati, come quelle voci inumane che si sciolgono su loro stesse. Reverse è un episodio di passaggio e richiama le atmosfere più esili e senza speranze di Weak Life. Dopo Reverse la narrazione continua con Mud, sorella di Hole per il suo incedere dinamico eppure senza via di scampo. Riporta alla mente le alienanti visioni di distruzione del giovane coniglio Quintilio ne La Collina Dei Conigli, con la differenza che se là l’uomo ne era il fautore, qui, come in Petrolio, le macchine sembrano acquisire linguaggio proprio e l’uomo finisce ad essere vittima di se stesso.
Dissociation si muove in territori più ambientali, i movimenti sono sotterranei e i loro suoni giungono ovattati, mentre solo un drone drammatico suona in prima persona, come a commentare lo sfondo lontano e iniziando ad accennare, così, ad una dimensione lirica. Cisterna ritorna al ‘qui ed ora’. Dall’incipit pare una traccia amaramente malinconica, ma intervengono ben presto dei rilasci improvvisi di basse frequenze a rintronare e riportare la traccia all’oppressione inquieta del disco, fino a mutarla in un lento procedere di beat ovattati. Subito dopo Meltdown, It Was… non può che essere il tema finale della colonna sonora della narrazione. Avvalendosi del violino di Nicola Manzan in accompagnamento al piano, introduce il momento autenticamente lirico del disco; estremamente evocativa, It Was… riesce bene all’interno di Innersurface sia perché è posizionata intorno alla fine, come a guardare e commentare la visione che progressivamente è stata dischiusa, sia perché conserva la fisionomia malata del disco, espressa all’inizio e soprattutto alla fine della traccia, dove implode in un crescendo caotico. Le macchine avranno una vita loro e la distruzione sarà pure totale, ma è restata una presenza in grado di assistere allo scenario. E allora sì, sembra proprio che nell’ultimo disco qualcosa di simile alla speranza vi sia. Era la risposta che cercavamo. L’avanzare vorticoso di Toxin sembrerebbe concludere l’opera, ma prepara alla reale conclusione, dopo 4’33’’ di silenzio: il remix di Blato dei Borghesia (presente, come le ghost track dei due dischi precedenti, soltanto nelle versioni fisiche). Vengono ripresi gli stilemi di Hole e Mud e la traccia subisce una rielaborazione alla luce dei ritmi più oscuri degli ultimi anni. Davvero una conclusione degna di nota, tanto che parlare di remix pare limitante per quanto Deison e Mingle facciano loro il pezzo.
Ha senso interrogarsi sui limiti di un disco ben riuscito come questo? Il fatto che non vi sia nulla di radicalmente nuovo nella proposta sonora dei due può realmente contare come critica? Eppure il lavoro scorre dal primo all’ultimo minuto senza – davvero – mai annoiare, le tracce si susseguono in un incedere coerente e non si avverte la presenza di alcun riempitivo. Per la qualità della soluzione sonora Innersurface si propone immediatamente come uno dei risultati più ‘internazionali’ della musica nostrana degli ultimi anni. Il solco è quello intrapreso dai lavori di etichette come la Blackest Ever Black, la Opal Tapes e la Strange Rules. Si odono affinità con i lavori più ambientali di Samuel Kerridge e di Peder Mannenfelt, ma anche di Lussuria, Emptyset, Haxan Cloak e Demdike Stare. Lungi dal risultare come un epigono di altri progetti, Innersurface figura come l’apertura di Gastaldello e Deison, nomi dall’esperienza pluriennale, a sonorità altre, mantenendo comunque la coerenza della propria proposta musicale trascorsa. In poche parole, resta una proposta primariamente ambient industriale, la quale è poi in grado di assorbire tutta una serie di influenze contemporanee senza snaturarsi. Ci si augura davvero che i due avranno la possibilità di portare la collaborazione all’ascolto di più orecchie possibili. Innersurface si pone sicuramente come il degno canto del cigno per la conclusione della trilogia a nome Deison / Mingle, innalzandone senza alcun dubbio la qualità finale.
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