PORTRAIT#4: Cristiano Deison [Loud!, Final Muzik, Aagoo]

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Drawing by Cristina Ruggieri

Eccoci giunti alla quarta uscita della serie PORTRAITS, ed ecco una nuovissima retrospettiva dedicata a un artista che potrebbe essere tranquillamente annoverato, in un’ipotetica storia parallela della (non) musica, tra i baluardi della scena italiana dagli anni ’90 ad oggi, e non solo. Cosa suona Cristiano Deison? Nastri, registratori, cervelli, pedaline, e stati mentali; sì, perché le sue produzioni sono così immersive da forzare la mente a rappresentarsi nuove ambientazioni per accogliere l’interiorità che, turbata dall’ascolto, fluttua senza riferimenti tra gli abissi dell’introspezione. Non si tratta di mere colonne sonore, ma di un suono che scorre pervasivo come il sangue, pur non condividendone il calore. Ed è questo suono che ci condurrà in un hotel spettralmente vuoto, come negli interni della nostra stessa casa nel cuore della notte, o tra le vie di una città in rovina, dove la luce malata di un incubo post-atomico permea ogni passo, ogni parola.

Questi sono solo alcuni dei concetti attorno ai quali si sono sviluppate le proposte artistiche di Deison, artista della desolazione contemporanea, tastierista dei Meathead di Teho Teardo, fondatore di etichette musicali e schivo animatore della scena underground friulana degli anni passati. È con immensa gratitudine che lo ospitiamo nei nostri spazi, grazie all’intervista concessaci e al mix di un’ora che ci ha dedicato. Se volete sapere di quella volta che conobbe Thurston Moore o capire cosa significasse fare musica sperimentale in Italia negli anni ’90 e cosa implica continuare a farlo oggi, allora accingetevi alla lettura dell’intervista, accompagnando ad essa l’ascolto del mix qui di seguito [per la tracklist, rimandiamo alla conclusione dell’articolo]. Un viaggio tra l’elettroacustica e l’elettronica contemporanea più oscura, da Egisto Macchi ad Haxan Cloak.


DISCOGRAFIA CONSIGLIATA

(clickare sulle immagini)

[Molte altre uscite sono liberamente ascoltabili qui]


D: Ciao Cristiano, grazie per aver accettato la nostra proposta. Ti va di descriverci in due parole il podcast che hai compilato per noi? Come l’hai costruito?

R: Ciao a voi e grazie per la disponibilità nell’offrirmi questo spazio. Per quanto riguarda il podcast ho scelto deliberatamente di non essere autoreferenziale e quindi non ho incluso miei pezzi; vista l’enorme mole di musica che solitamente ascolto ho scelto casualmente di prendere i dischi che ho impilato di fianco allo stereo e che fanno parte di ascolti più o meno recenti, da qui ho scelto un brano per disco. Una compilazione molto istintiva direi.

D: Proviamo a ricostruire la tua storia artistica. La tua carriera musicale, ormai più che ventennale, può essere divisa in fasi stilistiche, o personali, differenti, oppure è un’evoluzione organicistica continua? Se ritrovi delle fasi, riusciresti ad indicare una tua uscita, o un disco altrui, che ben rappresenti ognuna delle tali?

R: Credo che il mio percorso sia in continua mutazione, cerco sempre nuove strade, mi piace sempre sperimentare soluzioni diverse e anche le mie collaborazioni fanno parte di questa evoluzione; credo che Night Sessions (CD, Silentes, 2011) possa rappresentare al meglio la mia attitudine o se vuoi il mio stile, complice anche il nutrito numero di ospiti che mi hanno spinto in direzioni sonore e motori di composizione che non avevo ancora percorso.

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D: Devi avere una passione non da poco verso pedaline e altri marchingegni sonori artigianali e non. Come è evoluto il tuo apparato musicale? Ci sono delle tappe, degli ‘strumenti’ che sono stati una novità radicale o che ti hanno aiutato a definire o evolvere il tuo suono?

R: Gli strumenti vanno e vengono, ne utilizzo parecchi in base al suono che mi interessa ricreare, ma alla fine con un paio di essi riesco a definire ciò che ho in testa; non ho una grande passione per l’ultimo ritrovato sul mercato e nonostante abbia usato per diverso tempo strumenti digitali, negli ultimi anni sono tornato all’approccio più concreto che utilizzavo agli inizi, per cui mi trovo spesso a registrare con un microfono, un registratore a cassetta e degli effetti, un metodo di lavoro basato molto sulla manualità e anche molto sull’esperimento che incontra l’errore. I primi lavori li ho semplicemente registrati con un vecchio campionatore e dei nastri, poi  l’avvento del computer nel campo dell’editing/mixing mi ha aiutato parecchio.

D: Cosa ti ha insegnato l’esperienza Meathead? Quanto è stato un divertissement giovanile e quanto un’esperienza seminale? Ci è sempre parsa una band senza compromessi. Certo, a posteriori può essere inscritta in un certo stile musicale di inizio anni ’90, ma sembra che non ve ne fregasse niente delle mode musicali o di ciò che andava in Italia all’epoca. Era una band troppo aliena per un paese ancora legato a precisi stilemi e a certe logiche. Tra l’altro, si ha come l’impressione che abbiate mantenuto questa totale indipendenza, considerando per esempio i progetti di TeardoNardini e il suo Kobo Shop, e ovviamente la tua esplorazione musicale.  Come vivevi il tuo rapporto con la musica nel momento in cui entrasti nel gruppo? Eri già interessato a un certo modo di fare musica elettronica?

R: Vidi i Meathead dal vivo per la prima volta di supporto agli Helmet, mi impressionarono…avevano questo stile molto particolare di fondere noise rock, industrial ed elettronica del tutto personale. All’epoca ero interessato a tutta quell’elettronica e rock che mescolava altri generi e sperimentava, per cui erano per me la band giusta al momento giusto; di certo non seguiva alcuna moda, anzi, era tagliata furori dal panorama italiano che prediligeva il cantato in italiano. La mia connessione con Teardo e soci divenne più diretta perché un mio caro amico batterista di Udine ( MatteoJitterbugs“) iniziò a provare e suonare con loro, li seguii per un paio di tour e nel momento in cui dovettero rimpiazzare l’addetto all’elettronica mi invitarono a unirmi alla band. Mi ricordo l’esordio dal vivo ad un festival con migliaia di persone, dopo credo una sola prova, su di un palco in cui c’era gente tipo Ministry, Biohazard, Godflesh e House of Pain. Fu un periodo molto “rock’n’roll” con tantissimi concerti e ottime esperienze umane, molto importante; strinsi un’ottima amicizia con Teho Teardo che prosegue tutt’ora anche dal punto di vista artistico.

D: Che bilancio trai dalla tua esperienza musicale negli anni ’90, in cui hai prodotto davvero molta musica e fondato un’etichetta, la Loud! ? Per quanto riguarda la Loud!, scorrendo discogs, si trovano un sacco di uscite di progetti locali degni di nota accanto a collaborazioni internazionali. Oltretutto pubblicasti anche il compianto Atrax Morgue. Come selezionavi le tue pubblicazioni? E che ricordo hai di Corbelli? Ti ha influenzato in qualche maniera o avevate un rapporto collaborativo di rispetto artistico reciproco? Cosa ti ha spinto a cofondare anche un’altra etichetta, la Final Muzik?

R: È stato il periodo in cui ho iniziato a fare “musica” in solitaria per cui è stato il periodo più produttivo anche in termini di sperimentazione, avevo una fascinazione per il mondo del “noise” e mi sono fortemente interessato al tape-network. Quelle sonorità (con tutte le sue derive) venivano veicolate su cassette e lo scambio con vari artisti/musicisti era frequentissimo e stimolante. Ho cominciato a tessere una fitta rete di corrispondenza con cui, oltre a conoscere diverse persone, avveniva anche lo scambio di cassette, LP/7”, fanzines, cataloghi. Dapprima solo in Italia e poi ho cominciato a contattare etichette e musicisti stranieri. Il cosiddetto tape-network era molto attivo in Italia anche perché ereditava la storia degli anni ’80 con i nomi che avevano precorso la sperimentazione in ambito elettronico, poi riconosciuti a livello mondiale con produzioni al tempo praticamente incommerciabili, che ora sono veri e propri oggetti di culto.

Ho incontrato Marco Corbelli (Atrax Morgue) qualche anno dopo la nostra split tape su Loud! durante la data del primo Congresso Post Industriale organizzato da Old Europa Cafe e forse l’ho incrociato anche in qualche altra occasione suonandoci assieme a Milano in una delle prime performance live di Cinise (progetto che dividevo con Gianfranco Santoro di Nail Records/Final Muzik). Forse abbiamo comunicato più attraverso la nostra corrispondenza epistolare che dal vivo, Marco era una persona estremamente sensibile, timida e impaurita soprattutto in situazioni “sociali”. Questo si rifletteva sulla sua musica e in una visione estetica estrema. È stato uno dei primi contatti che ho avuto con il network italiano dedito a noise e power-electronics (il suo Sickness Report mi aveva impressionato).

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Ho pubblicato le mie prime cassette attraverso l’aiuto di amici (Sin Org./Nail Records) sia in Italia che successivamente all’estero arrivando a pubblicare i miei suoni su etichette americane, giapponesi, tedesche, greche. Da qui l’esigenza di avere una propria etichetta per pubblicare sia le mie registrazioni che quelli di amici e conoscenti. Ho “affilato” il mio orecchio per i diversi suoni e stili del “noise” prediligendo le forme più astratte e atmosferiche e meno “wall of sound”. Trovavo interessante questo fermento di persone dedite ad un’espressione sonora fuori da ogni vincolo formale e strutturale. Mi piaceva l’idea di scardinare alcuni tabù dell’ideologia culturale dominante. Ho iniziato a scambiare materiale ed idee con i musicisti/artisti che ritenevo interessanti sia a livello sonoro che ideologico, ero attratto dal suono/rumore dalle mille dimensioni, dal rifiuto di equilibri armonici che creavano un universo sensoriale, dall’attenzione per l’ascolto di suoni diversi, spesso estremi. Dopo  anni di frequentazione in questo tape-network ho allentato il mio interesse verso il noise più estremo, anche perché avvertivo una certa ripetitività sia di suoni che tematica. Ritengo comunque sia tuttora una scena che si possa chiamare veramente underground, sempre in fermento, che spesso riserva delle ottime sorprese. Dopo le mie produzioni in solitaria mi sono interessato a condividere le mie musiche e collaborare con altri non-musicisti/artisti con cui ho scambiato suoni, idee, dischi, materiali e costruendo i pezzi ho iniziato quindi a sperimentare inserendo suoni di altri musicisti, ad elaborare musiche altrui e a collaborare. Final Muzik invece è nata da un’idea di Gianfranco Santoro che dopo le sue release con Nail e Sin Organisation decise di gestire a tempo pieno l’etichetta e dal 2004 mi ha coinvolto in questa nuova avventura; si tratta di un’etichetta che vuole innanzitutto proporre qualità ed originalità al di là del genere musicale, per cui in catalogo possono convivere le sperimentazioni anni ’80 di Maurizio Bianchi come le ballate folk di Annen Berg. Non ci precludiamo niente, ma è chiaro che la direzione artistica che segue per la maggior parte Gianfranco è improntata ai suoni della musica sperimentale-industriale, noise, elettronica e pop music (!!!).

D: Personalmente, ho qualche ricordo molto vago del Rototom (la sede storica si trovava proprio dietro a casa mia, a Gaio di Spilimbergo, nel pordenonese, ed io avevo giusto l’età per immagazzinare i primi ricordi). Scavando online, chiacchierando, mi è parso vi fosse un fermento musicale non indifferente. Parlando specificatamente del Friuli, ci sono venuti i Ramones, i Gong, ma anche i Sick of It All, i NOFX, i Biohazard, gli Here di Teardo e Coleman. Come stava la ‘scena’, in quel decennio, e come è evoluta o devoluta?

R: Beh, stiamo parlando dei primi anni ’90 e il fermento musicale, soprattutto quello chiamato “alternativo”, stava esplodendo, uscivano nuove band (poi diventate seminali) e soprattutto dei bellissimi dischi (belli dall’inizio fino alla fine, ormai una rarità oggigiorno). C’era ancora una certa genuinità nell’approccio alla musica, nella sua fruizione (internet non esisteva) e il Rototom era uno dei tanti club che intercettava quella nuova musica e la proponeva senza problemi di generi, infatti mi sono visto Einstürzende Neubauten ma anche Ramones, Sick of it All, per citare i più famosi, e poi, dato che ci lavoravo, anche tutta una serie di gruppi italiani con alcuni concerti da venti paganti che poi sarebbero diventati famosissimi.

D: Ricordo quando ti incrociai al concerto dei Dälek a Pordenone e scambiammo due parole. Mi dicevi che in fondo eravamo in pochi ad essere appassionati di un certo tipo di musica. Com’è continuare a fare musica sperimentale in Italia nel 2016? Molti se ne sono andati, tu ci sei restato invece, tra le campagne friulane. Non ti sembra che ultimamente ci sia nuovo ossigeno per quanto riguarda un certo concetto di sperimentazione e la sua diffusione, anche in Italia? Forse anche grazie al web e a una maggiore accessibilità. Deve essere stato un bel casino essere degli appassionati di musica senza l’internet, per quanto fosse romantico andare in cerca di riviste, dischi e cassette.

R: La tecnologia, che nei due scorsi decenni è cresciuta esponenzialmente, ha favorito e permesso a diverse persone di sperimentare; a pari passo però non si sono approfondite o ampliate le idee che trovo spesso ripetitive e legate a certi stereotipi del passato. Vista la quantità di materiale in circolazione denoto spesso una mancanza di sostanza compositiva, una sorta di autocompiacimento fine a se stesso che dura l’arco di un paio di cd, con poca convinzione e credibilità progettule. Trovo comunque interessanti alcuni percorsi di sperimentazioni intrapresi da musicisti già attivi da diverso tempo, che trovano nuovi stimoli e soluzioni di ricerca personali.

D: In passato hai collaborato con molte personalità di spicco, da Lasse Marhaug, a KK Null, a Teardo e Thurston Moore, per non parlare degli stessi Zeni Geva, dei Cop Shoot Cop o dei Pain Teens. Sarebbe ridicolo fare una domanda solo su una delle persone che hai incrociato, per cui lasciamo a te una risposta libera… hai qualche aneddoto divertente o interessante da raccontare sulla tua esperienza con qualcuno di loro?

R: Mi sono imbattuto in modo veramente fortuito in Thurston Moore; come dicevo, all’epoca ricevevo parecchia posta e tra le tante lettere me ne arrivò una da New York che conteneva l’apprezzamento per i miei lavori e dei soldi per acquistare delle mie cassette che avevo in catalogo. Quindi avevo spedito il materiale ad una casella postale, invitando il destinatario a mandarmi qualche sua produzione visto che mi scriveva che anche lui produceva musica. Non avevo prestato attenzione al nome e alla firma sulla lettera, forse c’erano solo le iniziali…tant’è che dopo un po’ di tempo, con mio stupore,  ricevetti alcuni suoi cd (ricordo Foot, il progetto assieme a Dunbar e Don Fleming, e credo un’altro assieme a Tom Surgal e William Winant, Piece For Jetsun Dolma, oltre ad un vinile dei Sonic Youth, Goodbye 20th Century della serie SYR); ricontrollando diverse volte la lettera e la firma capii che  se si trattava di proprio di lui!!!

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In realtà sapevo dell’interesse di Thurston per varie scene underground anche estreme, la sua passione per le cassette, i vinili introvabili, le oscure band e quindi anche il mondo del noise e della sperimentazione. Nel giro di qualche altra lettera abbiamo deciso di realizzare qualcosa assieme e l’idea di un 45 giri in vinile era quella più percorribile visto che Thurston era appena entrato in studio per registrare un nuovo brano che poi apparve sul disco. Da lì a pochi mesi, tramite l’aiuto anche economico  della label Sin Organization in sinergia con la mia Loud!, è uscito lo split 7” in cui ognuno di noi partecipava con un pezzo. Non avevo materiale pronto all’epoca, per cui ho registrato una traccia appositamente e visto che nel lato in cui doveva apparire il mio pezzo avevo a disposizione ancora un minuto ho deciso di scomporre e riassemblare i suoni del pezzo di Thurston in un remix di solo un minuto. In realtà avevo già realizzato una specie di cover-remix-cut up di un pezzo dei Sonic Youth che appariva nella mia prima cassetta Frequency, del 1996, e che Thurston poi approvò per un’uscita su di una compilation di tributo con cover dei Sonic Youth, che però poi non è mai uscita. Tutto è fluito in modo molto naturale, senza problemi, e Thurston si è dimostrato decisamente disponibile e tranquillissimo, non credo mi abbia neanche chiesto un numero minimo di copie, solo un “fammi sapere quando esce”. Ovviamente gli ho subito spedito le sue copie. Ricordo che per le grafiche della copertina ho utilizzato come immagine principale una foto da un negativo che aveva preso della luce, i cui colori e sfumature formavano una specie di mostro informe. L’anno dopo ho avuto la possibilità’ di incontrarlo di persona durante un suo concerto in Italia, a Venezia, dove suonava assieme a Walter Prati e Giancarlo Schiaffini. Dopo il concerto, tra la ressa di ragazzi in attesa di un suo autografo, mi sono anch’io messo in fila con una dozzina di copie del nostro disco che volevo consegnargli pensando di avergliene spedite troppo poche. Tutti mi guardavano in maniera strana dicendomi “ma tu hai fatto un disco con Thurston Moore?”. Beh, sì, alla fine per un periodo sono diventato “quello che ha fatto il disco con Thurston Moore”, il che mi ha dato un po’ di esposizione maggiore.

D: Ti devi sentire molto a tuo agio ad amalgamare i tuoi suoni con quelli di altri artisti. Cosa pensi della dimensione collaborativa, comunque sempre presente nella tua storia musicale? C’è qualcuno con cui avresti voluto collaborare, ma per un motivo o per l’altro non sei riuscito a farlo, o qualcuno con cui vorresti avere una collaborazione in futuro? C’è qualche personalità a cui ti ispirasti o che continua ad influenzarti, sia nell’ambito musicale che in quello artistico in generale?

R: L’idea che sta alla base delle mie collaborazioni è quella di scambio di idee, di mescolanza, di stimolazione reciproca ma sopratutto di confronto per scoprire “ciò che può succedere”, sperimentando senza preconcetti; per questo prediligo amici/musicisti che abbiano questo tipo di approccio aperto alla “discussione sonora”. Tutti mi hanno insegnato qualcosa di nuovo e spinto a sperimentare con determinazione. Nelle collaborazioni c’è sempre un confronto iniziale che parte dal metodo di composizione, di elaborazione dei suoni che mi ispira;  si inizia con uno scambio di idee su una particolare tematica da approfondire; anche se a volte è successo che tutti questi passaggi non siano avvenuti e i suoni si siano sovrapposti durante lo scambio del materiale, in una sorta di improvvisazione nata al primo ascolto. Come dire “solo per il gusto di farlo”, subendo la fascinazione dei rumori e suoni che hanno avuto origine in altri contesti e in altre teste.

Credo che il lavoro di ogni artista sia la somma delle diverse esperienze, dei suoi ascolti, letture ecc. e più vasti sono i territori da cui attinge, più originale può essere il risultato del suo lavoro. Per questo quando devo citare delle influenze mi trovo in difficoltà a fare dei nomi (dai Beatles a Merzbow?), sebbene ce ne siano molti sia in ambito musicale che letterario o cinematografico. Devo però riconoscere che inizialmente una maggiore rilevanza l’hanno avuta il post punk e la new wave; Throbbing Gristle, Coil e Nurse With Wound mi hanno educato o diseducato ad un approccio più astratto con la musica; e poi sono cresciuto anche con molto noise-rock fino al metal più evoluto e contaminato.

D: Sei sicuramente un ascoltatore, oltre che un produttore di suoni. Collezioni dischi, cd, cassette? Cosa ti ha colpito particolarmente negli ultimi tempi?

R: Sono sempre stato un attento ascoltatore di musica e un appassionato di dischi, non un collezionista in senso stretto; per 20 anni ho avuto una trasmissione radio settimanale (Loud! su Radio Onde Furlane) in cui avevo modo di proporre tutto quello che mi interessava, dall’avant-rock all’avanguardia, a suoni più sperimentali. Seguo veramente moltissima musica. Ultimamente sto riscoprendo alcune perle dimenticate dell’elettronica italiana del passato, mi riferisco ai primi esperimenti sonori di Berio, Maderna e Zuccheri nell’istituto di Fonologia di Milano, oppure alla “library music” di Egisto Macchi, insomma registrazioni che sebbene abbiano 30/40 anni suonano totalmente fresche e attualissime e spesso qualitativamente superiori a certe nuove produzioni incensate oggigiorno come capolavori. Spesso guardarsi indietro è salutare per capire il presente!

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D: Arriviamo finalmente alla parte più musicale dell’intervista. Nonostante sia difficile recuperare ogni tua uscita, soprattutto quelle più vecchie, è possibile notare un’enorme evoluzione a partire dai cut-up dadaisti e le registrazioni messe in loop di Frequency (1996), il dark-ambient e i droni di The Black Single e.p. (1999), ma anche il noise atmosferico della collaborazione Cold Seconds, con Devil G (1997), o di Useless Suicide, con Dead Body Love (1997). Evoluzione culminata in Dirty Blind Vortex, del 2000, uscito per la Crionic Mind di Scott ‘Gruntsplatter’ Candey. Il disco sembra un riassunto di tutte queste tendenze del Deison precedente, una sintesi di ciò che fu, in grado di offrire precisi scorci su ciò che sarebbe diventato il tuo progetto negli anni successivi. Le atmosfere sono più cinematiche, pur mantenendo una ruvidezza originaria da soundtrack per un film post-atomico. È un noise che si sposa più gentilmente di prima all’ambient, con eccessi a tinte chiaramente industriali. Un sacco di aiuti, da R.H.Y. Yau, a Government Alpha, Baal, Marhaug, Sshe Retina Stimulants. Il noise insomma non è mai l’unico protagonista, ma è intercettato ed educato da loop o altri effetti, pur mantenendo un’imprevedibile aggressività di fondo – basti pensare agli spari di Automatic Pain II. Come è avvenuta la genesi di questo disco, che forse resta il tuo lavoro che preferisco in assoluto? E che rapporto ha con ciò che hai fatto prima?

R: Grazie per aver ripescato quel disco a cui sono davvero legato, anche perché dopo tante cassette e vinili è stata la mia prima uscita su cd ed è stato un po’ il riassunto di quei primi anni. Le registrazioni raccoglievano materiale che avevo accumulato e che sono riuscito a plasmare con un taglio meno “noise”, ricercando quell’atmosfera cinematica ed evocativa che ho poi sviluppato dopo. Anche qui mi sono avvalso di contributi sonori coinvolgendo vari amici con cui ero in contatto all’epoca.

D: Ci sbagliamo o hai avuto un momento di pausa tra l’uscita con Lasse Marhaug del 2003 a quella con KK Null nel 2009? Anche la tua etichetta restò ferma per un po’. Invece dal 2009 in poi si potrebbe parlare di un rinascimento-Deison, legato anche a lavori più estesi, in vinile e cd, e timbri ambientali ben più presenti…

R: Esatto, in quel periodo avvertivo una certa stanchezza anche compositiva e poi stavano cambiando un sacco di cose, anche solo il modo di usufruire della musica era cambiato, per cui mi sono fermato dedicandomi ad altro.

D: Del 2003 è anche quel delirio glitch di Scene Missing! Non avremmo mai pensato di sentire dei suoni del genere in una tua uscita. L’ultima traccia è incredibile. Hai mai pensato di aggiungere dei beat alle tue intessiture sonore? O meglio, hai mai immaginato di fare della musica maggiormente beat oriented? Molti sperimentatori grosso modo dal 2010 a questa parte hanno iniziato a farlo e sembrava che a un certo punto tutti i vecchi noisers facessero industrial techno… Come hai visto quella tendenza? Sei comunque interessato alla techno, alla jungle o all’IDM? [per lo stream integrale di Scene Missing: qui]

R: Non sono mai stato interessato ad una musica prevalentemente “beat oriented” sebbene ne ascolti e apprezzi parecchia. Nel mio modo di comporre, il beat deve essere un suono che non è prevalente, che si confonde e che non ha le caratteristiche di cassa, rullante e piatto, per cui prediligo più i suoni che possano essere percepiti come ritmi, come impulsi; a volte del rumore in loop risulta essere fortemente ritmico. Nei primi anni 2000 anch’io, come molti, ho subito un fascino per i suoni glitch e Scene Missing è stata una release di curiosità nell’ambito di quelle atmosfere. Ho sempre seguito con interesse la techno più sperimentale e l’IDM, soprattutto all’inizio quella più contaminata, ma poi ho perso interesse perché tutto suonava uguale, stesse soluzioni sonore, stessi plug-ins e poca ricerca. I vecchi noisers che ho sentito spingersi verso soluzioni techno mi hanno sempre fatto una certa tenerezza.

D: È chiara una maggiore attenzione, negli ultimi anni, verso l’aspetto visivo. La tua musica è in effetti fortemente evocativa, in alcune tue ultime uscite ci sono riferimenti fotografici e nelle ultime apparizioni live hai fatto uso di visual. Chi ci lavora? Che legame ha il tuo suono con le immagini?

R: Suono ed immagini sono fortemente connessi nella mia musica sopratutto nello sviluppo del lavoro; solitamente parto da immagini anche mentali per registrare i suoni, capita che concepisca il lavoro grafico parallelamente alla composizione dei miei pezzi, mescolando idee e stai d’animo che provengono da fotografie e video, una sorta di ispirazione inconscia che mi porta spesso in direzioni inaspettate. Recentemente ho utilizzato dei visual (che curo assieme a  mia moglie) durante le performance dal vivo, proprio per dare una completezza al mio suono, niente di descrittivo ma solamente una sottolineatura ai miei suoni, per creare delle suggestioni che accompagnano l’ascolto.

D: Fai pochi live. Come mai? Inoltre non ti è mai venuta la voglia di tornare a suonare ‘tradizionalmente’ dal vivo? Ad esempio con una band.

R: Da quando ho iniziato ho sempre preferito l’aspetto delle registrazioni “in studio” rispetto alla dimensione “live”, ma negli ultimi anni mi sono proposto sempre più frequentemente dal vivo soprattutto in contesti più intimi e raccolti (programmi radio, strane location), dove l’attenzione all’ascolto è fondamentale. Non mi interessa suonare dappertutto e neanche far parte di una band in senso classico, in “duo” per esempio è più che sufficiente.

D: Veniamo a Night Sessions, del 2011, uscito per la Silentes. Anche qui un sacco di collaborazioni, da Franck Vigroux a Coleman. È un disco molto lento, una colonna sonora per l’insonnia, o l’insonnia che si fa colonna sonora. Come nacque e come riuscisti a organizzare i diversi apporti artistici degli altri in modo che riguardassero il concept principale?

R: Credo che Night Sessions, oltre ad essere il lavoro che mi ha impegnato maggiormente sia nella sua organizzazione che produzione (coinvolgendo diversi collaboratori, quasi uno per ogni pezzo, oltre a dei miei pezzi “solo”), sia un compendio delle mie diverse anime musicali, e grazie alle diverse collaborazioni sia riuscito ad esplorare nuovi percorsi sonori. L’idea di base era quella di registrare/comporre solamente nelle ore notturne in cui si ha una diversa percezione uditiva, in cui c’è molto silenzio e i suoni che ci circondano vengono amplificati, per questo ho chiesto anche a tutti i collaboratori di lavorare nelle ore notturne (infatti a ogni pezzo è associata anche una notazione oraria).

D: Il tuo rapporto artistico con Mingle è molto interessante. Avete prodotto due dischi, Everything Collapse(d) nel 2014 e Weak Life nel 2015. Il primo è la descrizione di un mondo in collasso, ogni suono evoca decadenza e caduta, per non parlare di quella chiusura da brividi, Failure degli Swans, cantata da Daniele Santagiuliana. Come avete avuto l’idea di concludere proprio con questo pezzo? Weak Life è invece meno opprimente e desolante rispetto al primo; dopo il crollo e la distruzione una debole forma di vita cresce dalle macerie. Il prossimo capitolo a firma Deison & Mingle riguarderà questa rinascita?

R: No, il prossimo capitolo che sarà l’atto conclusivo di questa trilogia si intitolerà InnerSurface, e rappresenterà la caduta in un buco, quindi nessuna rinascita, ma si entrerà nelle profondità, in un mondo buio, sporco e maleodorante, buche ricolme di fanghi e liquidi industriali in cui tutto è denso, greve. Il movimento fisico si interrompe, rimane il caos nella testa, ci si guarda attorno, con fatica, e tutto è irreversibilmente cambiato. L’elettronica è quella sporca, estremamente evocativa, fatta di ritmi disturbanti, field recording e loop processati. Il disco è praticamente pronto e dovrebbe uscire verso la fine dell’anno per l’etichetta americana Aagoo (come i suoi predecessori). L’idea della cover è nata per caso su suggerimento di Andrea [Andrea Gastaldello] (coincidenza vuole che ci siamo conosciuti ad un concerto proprio degli Swans) che mi aveva proposto il suo interesse nel re-interpretare Failure; il concetto alla base del pezzo di Gira era perfetto per le tematiche dell’intero disco, per cui è diventata il pezzo conclusivo del lavoro; è diventata una ghost track da ricercare alla fine del cd. La prima persona che mi è venuta in mente, vista la sua passione per gli Swans ma sopratutto per l’attitudine vocale, è stata Daniele, che l’ha interpretata con molto pathos. La vedo come un’omaggio, ed in ogni nostro disco ne è presente uno!!

D: Anche il progetto Anatomy, con Santagiuliana, è molto interessante. La seconda uscita ha visto una netta evoluzione rispetto alla prima ed è oltretutto riuscita ad essere ancora più angosciante. Continuerete con questa collaborazione? Si sentirà mai la voce di Santagiuliana in un live con te?

R: Anatomy non è un gruppo che è stato fondato, né che si é formato. Anatomy esiste solo ogni singola volta che la loro musica viene prodotta o ascoltata; infatti la regola alla base del suo concepimento è stata quella di improvvisare solamente per una settimana e poi editare il materiale e sparire. Se  il disco di esordio suonava come una bestia che dormiva, con il secondo, Hypomaniac Larvae, la bestia si è svegliata, e non è la bestia nobile che stavamo immaginando. Anatomy è in letargo, sempre pronto a svegliarsi.

D: Con Uggeri hai lasciato molto spazio a diversi strumenti tradizionali: molto minimalismo, molto ambient, successioni di note di piano non necessariamente drone. In The Other House (2015) è l’esile suono della comunicazione tra interiorità e ambiente circostante. Come è uscito un progetto così delicatamente malinconico? Pur condividendone alcuni aspetti del concept di spazio interno, risulta molto differente dalla tua uscita solista Quiet Rooms (2012), molto più angosciante. Insomma, percorrendo le stanze della casa abbandonata del 2012, gli spettri sono sempre pronti ad inquietarci e a causare rumori, mentre nell’altra casa, quella del 2015, i fantasmi sono statici, forse sono solo dentro noi stessi, forse siamo solo noi stessi. Che differenze ravvisi tra le due uscite? Possono essere messe a confronto?

R: In the Other House assieme ad Uggeri non è nato come concept album, ma si è trasformato lentamente come la musica in esso contenuta arrivando a mescolare l’immaginario di una casa da visitare (anche grazie alle foto di Francesca Mele che sono state fonte di ispirazione per le musiche). Non è lo scenario di un film horror, non c’è tragedia né paura, solo la consapevolezza che l’altrove e la fuga possono essere meno accoglienti di quanto sperato. Ci sono molte parti suonate anche con strumenti tradizionali e in generale rilevo un andamento più musicale (del mio solito), mentre totalmente differente è stato l’approccio per Quiet Rooms, in cui per diverso tempo ho raccolto field recording provenienti da diverse camere di albergo in cui ho soggiornato. L’atto della registrazione avveniva prima di prendere possesso della stanza, una sorta di esplorazione; mi interessava afferrare e racchiudere il rumore che percepivo ogni volta tra quelle quattro mura. Dopo un lungo lavoro di editing ne è uscita una lunga traccia di oltre 40 minuti, suddivisa in 4 movimenti, che ha trovato casa sull’etichetta americana Aagoo records.

D: Prima o poi doveva capitare la collaborazione con Maurizio Bianchi. Vi siete mai incontrati personalmente? Come si è svolto il vostro lavoro? In certi momenti di Black Panorama (2015) pare di distinguere una parte più musicalmente analogica da una più sintetica. Sono effettivamente i vostri due apporti?

R: Non ho mai conosciuto personalmente Maurizio, ci conosciamo virtualmente dal 2007 quando ho realizzato alcune grafiche per dei suoi lavori e ovviamente conosco gran parte del suo percorso sonoro e apprezzo molti suoi lavori, soprattutto i primi. Dal nostro fitto scambio di corrispondenza è nata l’idea di collaborare assieme, essenzialmente su del materiale che MB mi ha fornito dal suo archivio. Si trattava di vecchie registrazioni inedite su cassetta a cui ho lavorato decontestualizzandole e inserendo i miei interventi; è chiara la doppia impronta analogico/digitale ed era proprio quello a cui miravo.

D: Con Favaron, in Nearly Invisible (2015), torni invece ad esiti più rumorosi, a testimoniare la tua abilità nel muoverti sia in terre più marcatamente ambientali che in ambiti maggiormente noise. All’uscita è anche allegato un racconto ad opera di tua moglie, Sandra Tonizzo. Come è nato questo concetto? Avete anche fatto delle date live in cui sembra comunichiate particolarmente bene nella performance. È un progetto che avrà un seguito?

R: La collaborazione con Gianluca fluisce in maniera molto semplice e spontanea, l’idea di mescolare i nostri diversi approcci al suono ci ha portati in modo naturale ad assemblare dei pezzi senza troppi interventi di post-produzione, quasi una jam session che anche dal vivo funziona proprio perché ognuno lavora con il proprio metodo e l’unione risulta molto interessante. L’approccio è quello di dipingere dei quadri astratti più o meno rumorosi, da qui l’idea di inserire immagini e parole come fossero un completamento del mondo sonoro. Sicuramente faremo un secondo lavoro assieme, ne abbiamo parlato spesso, ma ancora non abbiamo fissato le basi; anche Sandra continuerà ad occuparsi della parte testuale in un paio di progetti che abbiamo assieme in cantiere.

D: Nel 2015 hai fatto uscire davvero molto materiale. Il 2016 sarà un anno più calmo? Ti ringraziamo per il tempo che ci hai concesso, Cristiano. Alla prossima!

R: Il 2015 è stato decisamente un anno molto intenso, pieno di mie uscite che casualmente si sono concentrate nell’arco di alcuni mesi. Alcuni titoli erano pronti da molti mesi ma sono slittati a causa di intoppi e ritardi. Nel 2016 ho solo in programma un paio di release già pianificate: un mio disco “solista” su Many Feet Under e il terzo capitolo assieme a Mingle su Aagoo! Grazie a voi per questo spazio!!!

 


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