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“Ci sono molte strade percorribili per uscire fuori dai suoni indie che caratterizzarono la prima parte del nuovo millennio. Una coppia di straordinari musicisti italiani scelse nel 2004 una via sotterranea, un percorso fatto di sangue e metallo, di larve e terra. Giovanni Succi [Madrigali Magri] e Bruno Dorella [Wolfango, Ronin, OvO] progettarono l’avventura Bachi da Pietra, condensando scarni aromi rock-blues in traiettorie noir e minimaliste arrivando negli ultimi anni ad improvvise esplosioni stoner e metal con i dischi Quintale e Necroide” [via]
Quest’estate, in un pomeriggio assolato di fine luglio, abbiamo avuto il piacere di fare una lunga chiacchierata con Giovanni Succi – voce e chitarra dei Bachi Da Pietra – prima del loro concerto a Finale Ligure [ndr: non temete, ci saranno diversi interventi anche di Bruno Dorella]. Abbiamo parlato del loro ultimo e sesto disco Necroide [La Tempesta Dischi, 2016], del loro inesorabile passaggio dal blues minimale all’hard rock e poi al black metal (trasformazione già iniziata con il precedente Quintale), della loro decennale carriera e di tutto quello che gira ed ha girato attorno a due insettoni del suolo dalla nomenclatura Succi – Dorella. La location del concerto era ideale per loro: una fortezza massiccia e antichissima che dava sul mare: pietra su pietra, tonnellata su tonnellata. Enjoy!
D: Necroide è il vostro disco più forte, il più cattivo, ma allo stesso tempo il più facile, il più pop: il disco con più ritornelli, con più melodia, anche il più vario dei Bachi da Pietra. Ci sono pezzi come “Black Metal Il Mio Folk“, poi un pezzo quasi funk come “Slayer And The Family Stone“, pezzi più lenti, pezzi più veloci. Come è nato un disco così?
R: Come sapete a me piacciono i paradossi e tutto quello che avete appena detto è perfettamente paradossale. Questo era l’obbiettivo. Obbiettivo raggiunto.
D: Nel 2005, quando avete iniziato a suonare ed eravate in “luoghi” totalmente diversi, avreste mai pensato di finire, undici anni dopo, a fare un disco del genere? Perché, a sentire bene, il seme di questo suono c’era già.
R: No, non posso dire che fosse già in progetto, undici anni fa, arrivare a un punto di questo genere. Anche perché si naviga a vista: non siamo un’impresa con dei piani quinquennali. Non avrei immaginato che avrei fatto un disco metal a 47 anni; però forse è meglio che l’abbia fatto a 47 anni che non prima ed è meglio che sia uscito così e non in altri modi. Quando dico “così” intendo con un gruppo come i Bachi da Pietra che, non dimentichiamoci, è composto da sei corde e due tamburi: quindi hai voglia a menare, ma sempre quelli sono gli elementi.Era una sfida. Tutta l’operazione Bachi Da Pietra è una sfida alle leggi della gravità, e la sfida ci ha portato fino a questo punto. Ti viene in mente un’idea folle e dici: “No dai, chi la farebbe?” “Noi per esempio”. È un bel gioco, ed è divertente. Quindi no, non avrei mai immaginato di fare un disco così. Ma non mi sarei nemmeno immaginato, a dirvi la verità, che ci saremmo rotti i coglioni di suonare a dinamiche basse, perché la gente ai concerti parlava talmente forte che ci sopprimeva.
D: Questo ha stupito anche noi quando è uscito Quintale.
R: Ma sì, a un certo punto basta. Abbiamo capito che al genere umano questo non interessa e a noi interessa continuare a suonare in giro, continuare a fare musica. Come vi ho detto: ci interessano le sfide, quindi è molto bello che ci siano due grossi insetti che dichiarino guerra al genere umano, come Don Chisciotte e Sancho Panza. È Don Chisciottesca l’operazione e chi non coglie questo aspetto non ha capito esattamente di cosa stiamo parlando.
D: Anche se, a pensarci, da Tornare Nella Terra fino a Quarzo, c’è sempre stato un provare ad alzare di “uno” il volume. Poi a un certo punto lo si alza di tre ed esce Quintale.
R: Avevo sentito dire da qualche parte che l’evoluzione è graduale fino a un certo punto e poi la natura procede “a salti”, si dice. E noi abbiamo fatto un salto.
D: E quindi il metal. Ti ricordi la prima volta che hai sentito un disco metal? Com’è stata?
R: Certo, come no. Devo tornare veramente in là con gli anni. Mi ricordo le gite scolastiche delle elementari, che riesco quindi a situare bene. Nelle gite scolastiche delle elementari, nelle cuffie di Giovanni Succi c’erano i Ramones, gli AC/DC e i Kiss. Poi alle scuole medie, in prima media, mi ricordo gli Iron Maiden. Era l’anno di Killer e lo comprai appena uscì. E poi l’heavy metal mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza, i dischi boom che ti potrei citare sono: gli AC/DC, tutta la discografia, Destroyer dei Kiss, il primo degli Iron Maiden, No Sleep Till Hammersmith dei Motorhead, i primi dei dischi dei Venom e Kill ‘Em All dei Metallica. Quelli sono stati i dischi che per me hanno lanciato sempre un po’ più in là l’asticella della musica dura. Poi tutto quello che è venuto dopo, sì… però restano quelli i cardini della mia adolescenza di rockettaro. Poi, essendo un rockettaro di provincia, non ho mai fatto troppa distinzione fra punk e metal: queste cose erano roba da gente di città.
D: Anche perché immaginiamo che, non essendoci internet, tutto quello che arrivava era ben ricevuto e ben accetto.
R: Ovviamente, ovviamente. Bastava che ci fosse la chitarra distorta. Poi se uno si metteva le borchie..
D: ..non lo sentivi nella cassetta.
R: Non si percepiva. Quello che voglio dire è che c’erano dei codici di abbigliamento molto più forti di oggi. Oggi uno stilista di alta moda si mette una maglietta degli Slayer, all’epoca era indossare un credo, era indossare una divisa. Quindi se uno portava una cintura borchiata, vuol dire che era di quella squadra lì’ e quindi era subito un fratello. Nessun altro avrebbe fatto una cosa del genere.Oggi è diverso: le cose cambiano e per fortuna, anche. E alla fine chi se ne frega, non sono queste le cose importanti. Però, per dire, probabilmente anche oggi gli adolescenti hanno i loro codici di abbigliamento, solo che io non li intercetto più, non ne so niente: sono un quasi cinquantenne [ride]. Parlo semplicemente della mia storia. Come Paolo Conte parla dei “ragazzi scimmie del jazz”, noi eravamo ragazzi scimmie del metal. Quelli di oggi saranno ragazzi scimmie di qualcos’altro e io gli auguro di viverlo intensamente.
D: Ci interessa questa cosa che dicevi ora, che l’inizio dei tuoi ascolti è nel metal, ma i primi dischi che hai fatto no. Cosa ti ha fatto deviare dall’iniziare con un disco metal e cosa te l’ha fatto fare a 46 anni?
R: Beh, tutta la mia storia, tutto quello che c’è in mezzo. Stiamo parlando di un me diciottenne che scopre per la prima volta un disco di Tom Waits a casa del fratello maggiore del mio migliore amico di allora e dice “Ma che cazzo è sta roba! Ma che brutto, ma senti come canta! E l’assolo?! Senti, questo disco mi ha fatto talmente schifo che… dammelo un po’ che me lo voglio sentire a casa, perché non è possibile che ci sia un disco di merda così.” Era Swordfishtrombones e mi ha cambiato la vita, ovviamente.
Da lì, e ripeto avevo 18 – 19 anni, mi sono aperto al resto del mondo. Quindi è stato il principio di una maturità e pian piano ho abbandonato la musica metallica… ma anche un po’ perché la musica metallica ha abbandonato me. Non riuscivo più a trovare quella freschezza e quel qualcosa che mi entusiasmava agli inizi, ma è normale: ognuno cambiando età cambia pelle, anche se non se ne accorge. Le cose cambiano, le sensazioni non sono mai più le stesse: anzi, più ti accanisci a cercare le stesse sensazioni e meno le ritrovi. Per cui ho visto che c’era un mondo di cose interessanti da ascoltare, principalmente originate dal blues, e praticamente per i successivi quindici anni non ho fatto nient’altro che suonare del blues. Salvo con qualche incursione nel funky, in un periodo in cui speravo di vivere di musica e quindi suonavo anche in cover band facendo il chitarrista a pagamento: quindi ho suonato di tutto. Secondo me è giusto che chi suona – come chi scrive – passi attraverso tutto, che chi si occupa di giardinaggio conosca tutte le piante e così via… e poi sceglierà quali sono quelle che assomigliano più al suo caratteraccio. Per cui no, fare un disco metal entro i canoni puri del metal è una cosa che non mi è mai interessata. Magari se me lo avessi chiesto a sedici anni mi sarebbe interessato. Anzi, mi è successo di riascoltare dei demo registrati all’epoca e sono cose da mettersi le mani nei capelli… che non ho più, per altro. È ovvio: come tutti i sedicenni cercavo lo stereotipo. Poi si cresce. C’è anche chi non cresce mai: beato lui, si accontenta di quello che gli passa il qualsiasi convento, perché poi sempre di conventi parliamo. Non è la mia storia.
D: Degli ultimi due dischi ci ha colpito molto il modo in cui sono stati registrati, che sembra molto differente rispetto ai precedenti. Abbiamo notato soprattutto in Necroide un trattare la voce, un filtrare la voce, che non la fa suonare mai pulita, suona sempre molto “lavorata”. Anche le sovraincisioni prima non c’erano o, se ci sono, sono davvero molto poche.
R: Fino a Quintale non c’è una sovraincisione. In Quintale e in Necroide abbiamo fatto sovraincisioni ma solo della stessa parte, quindi non sovraincido mai due parti diverse. Mi chiederete: perché? E che cazzo ne so [ride], perché mi va così. Perché poi dal vivo mi darebbe fastidio essere li a suonare e una parte manca. Quindi non mi piace barare in studio. Vedete? Ho ancora questo imprinting mentale vetero-punk per cui sovraincidere una parte diversa è un po’ barare. Nel mio caso perché abbiamo la pretesa di proporre esattamente la stessa cosa sul palco in due e quindi la terza parte che sovraincidi non ci sarebbe. Allora o prendi un altro elemento, così che poi dal vivo fai altre parti, oppure fai di necessità virtù, che secondo me è sempre una chiave per il successo. Infatti, vedete, sono all’apice del mio successo. Questa è ironia eh, perché ci sono quelli che non la colgono.
D: In questo nuovo approccio alla registrazione, quanto c’è dello zampino di chi ha registrato il disco, cioè Giulio Ragno Favero?
R: Guarda, Favero, così come il fonico di studio, è l’uomo che fa le cose che tu non sai fare. Io posso andare in studio, avere un’idea bellissima e trovare una persona che come Giulio che dice “Ok, ho capito“, e da lì al depositare questa idea su un supporto e trasmetterla anche a voi che ascoltate, di mezzo c’è tutto il suo lavoro. Quello che io avevo detto a Giulio era che volevo un suono mostruoso, orribile, brutto, anni ottanta. E siccome tutti i dischi prima sono stati registrati con una particolare cura nella voce, nel suono, non so perché abbiamo quest’aura di quelli che non si sarebbero sporcati le mani con gli effetti. Invece no, noi siam gente che mette le mani nella merda: quindi non abbiamo nessuna paura di sporcarci con niente. Se dopo cinque album abbiamo voglia di cambiare e abbiamo voglia di sentire come suona un effetto sulla voce, lo facciamo senza nessun problema. Anzi, trovo quasi puerile, da parte di alcuni, stupirsi per così poco. “Oh caspita, ma ha fatto questa cosa! Ma non si fa!“
D: “Eravate così bravi fino ad adesso!”
R: Infatti! Quindi questo è un atteggiamento puerile e chi ce l’ha se lo tiene. Se si guarda ai maestri: Neil Young è uno che negli anni ottanta ha fatto un disco col vocoder.
D: Re-actor!
R: Esatto. Io sono uno di quelli che negli anni ottanta diceva “che schifo questo disco“. L’ho riascoltato dopo vent’anni e sembrava gli Air. E cavolo, era avanti lui. Questa è una lezione che se sei uno che fa musica non puoi non raccogliere. ‘Suonare‘ in inglese si dice to play, no? Che vuol dire anche giocare. Quindi noi giochiamo la musica e giochiamo a suonare tutto quello che ci piace, tutto quello che rientra nelle nostre corde. Detto questo sarà difficile che ci sentiate fare un valzer e una mazurca, però se andiamo dal blues al black metal, sì. E’ solo una questione di volumi. Se tu prendi Robert Johnson, lo infili dentro un fuzz e lo metti a manetta, sembra un post punk dentro un garage. E sono sicuro che il pubblico vero dei Bachi Da Pietra, i veri bacati, quelli che poi ascoltano nel silenzio della loro stanza i dischi – spero emozionandosi – non hanno bisogno del libretto di istruzioni.
D: Vogliamo parlare un po’ dei testi del disco, che come al solito ci piacciono molto. Da questi ultimi due dischi abbiamo notato un interesse per l’esotico, per l’altrove, per il lontano. Mari Lontani, l’hotel perso nel Chapas, Voodoviking che arriva da “Yelida” di Thomas Franco, tratto da Antologia di Poeti Negri curata da Carlo Bo. Come mai?
R: C’è una linea di tradizione rispetto a questo che io sento molto nelle mie radici che è quella di Cesare Pavese. Se ci fai caso tutti i piemontesi illustri hanno, in qualche modo, una pulsione verso l’oltre, verso l’altrove. Pensa a Gozzano, pensa a Pavese, a Paolo Conte. Nel mio infimo anch’io ho di queste pulsioni: sarà che le colline ti ricordano che ci sono gli scheletri di balena sotto i vigneti, sarà che una volta c’era l’oceano, non lo so che cos’è, fatto sta che l’oltre è la meta di tutti. Ed è una meta che – attenzione – non è affatto difficile raggiungere: perché l’oltre è portata di mano per chiunque. L’oltre più oltre di tutti è la morte ed è un’esperienza che faremo tutti. Necroide, essendo il sesto disco dei Bachi Da Pietra, gioca anche con questo stereotipo, col number of the beast. Il sesto disco dei Bachi Da Pietra doveva essere un six six six, e quindi è fortemente intriso di morte; però è una morte che ravviva. E una vita che ti ammazza.
D: Sempre rimanendo su Voodooviking, volevamo chiederti perché quel poema ti ha spinto a volerlo mettere in un disco e cosa ti ha commosso di esso.
R: Avevo trovato su Ebay questa ‘Antologia Di Poeti Negri‘ di Carlo Bo e all’interno di questo libro ho trovato cose che rispecchiavano le mie ispirazioni e le mie fantasie del momento. Una di queste fantasie era che il personaggio di Haiti, di Quintale, in realtà fosse andato da qualche altra parte nel mondo. Come tutti i grandi scomparsi, come Elvis, anche lui, che era una rockstar di provincia ed è stato un rockstar per un bacino limitatissimo di persone, me lo son immaginato disperso da qualche parte per il mondo a rifarsi una vita. Ovviamente si è rifatto una vita di merda ed è finito schiavo di una prostituta adolescente al porto di Folibete, è ricaduto nell’alcool e vendere aringhe, punto. Poi ci ho aggiunto, per rendere più colore al contrasto, l’idea che fosse vichingo. Ma nella poesia originale si parla di un vichingo. Ho trovato certamente divertente questo gioco di cercare di rendere il poema in due strofe: è un esercizio veramente straordinario per i malati come me di inchiostro ed è fattibile sempre con qualsiasi cosa: prendi un film e dici raccontami quel film in due parole. O una grande opera della letteratura: l’Amleto che cos’è? Uno che deve decidere se uccidere o partire.
D: Un’altra cosa che si può rifare a questo argomento è che da Quintale in poi è arrivato l’inglese, nei testi. C’è un motivo? E’ casuale?
R: No, non è casuale. L’inglese entra in Quintale attraverso il discorso diretto a Dio. La lingua ufficiale di Dio quale sarà oggi? Sarà l’inglese. Fossimo uomini di epoche passate sicuramente sarebbe stato il latino. Ecco io penso che se oggi sei al cospetto di Dio, gli parli in inglese. Infatti quel pezzo comincia in inglese e si rivolge a Dio in quel modo. Non lo spoilerizzo così la gente va su Spotify e così io guadagno uno 0,0000001% e fra sette anni ci mangiamo una pizza. E quindi entra così l’inglese. Poi c’è in Apocalisenct: quello è un messaggio all’umanità. Spero che capiscano tutti, “per favore per me non troppa roba, basta una pietra sopra”. Sostanzialmente dico quello che dico in italiano, lo traduco in una frase sola, che spero possa arrivare ai posteri, agli ufo, a Dio. Sicuramente non parlano italiano; se parlano inglese, almeno i fondamenti glieli ho detti.
D: Un giorno stavamo leggendo ‘Res Amissa‘ di Giorgio Caproni e a un certo punto abbiamo letto ‘la vita tirata coi denti’ e ci si è illuminata una lampadina [la citazione è presente in Tutta La Vita, pezzo dell’ep Habemus Baco].
R: E io ho aggiunto “e lei mi tira“. A me piace molto citare le cose che mi appassionano e che conosco, peccato che le conosca solo io [ride] Beh no, come vedete qualcuno le conosce.
D: E poi ne abbiamo trovata un’altra ed è sempre in Tutta La Vita, quando ti autociti con “appeso a un impianto di fortuna” che è una citazione di Per La Scala Del Solaio. Cosa c’entra Per La Scala Del Solaio con Tutta La Vita?
R: Eh, c’entra. Dovremmo dire di cosa parla Per La Scala Del Solaio. Parla della scala del solaio che mio padre tutte le notti della sua vita saliva per andare a dipingere. Perché per tutta la vita ha desiderato fare il pittore. Era un artista, un artista vero, che però ha fatto di quella scala del solaio un limite, perché gli bastava, come dico nel testo. “Tutto quello che gli serviva dal mondo era lì“. Quella canzone l’ho scritta, mi ricordo benissimo, in una vasca da bagno, in un hotel in una cittadina che si chiama Estela. In questo gioco di rimandi continui che mi racconto continuamente – e che forse sono tutta una balla – può avere un senso. Spero di non aver preso la piega “Mi imbracai su un barcone battente bandiera panamense, non so cosa trasportasse, non l’ho mai capito.” Vi manca questa citazione? Carlo Verdone. Comunque Per la scala del solaio è la canzone che ho dedicato a mio padre quando morì nel 2007, quindi per me è la fine vita più tangibile che ho incrociato, ed è la fine vita che a differenza di tutte le altre che porta scritto il tuo nome: cioè tu vedi che il prossimo sarai tu, che tu dal quel momento smetti di essere figlio e non sei più figlio di nessuno, perché chi ti ha messo al mondo non esiste più. E non esisterai più neanche tu, questo è certo. E pensi che probabilmente tuo padre le ultime cose che vede le vede con quegli occhi lì, pensando che anche tu un giorno, che sei suo figlio, non durerai.
Andate ad ascoltarvi Per La Scala Del Solaio sapendo di cosa parla, e capirete perché in tutta la vita ho inserito una citazione proprio di Per La Scala Del Solaio. L’impianto di fortuna era la lampadina che lui non ha mai aggiustato in 50 anni: sempre la stessa lampadina blu che pendeva lì con un filo appeso. Quella è la vita: una cosa che non farai mai e tutti i giorni dici “devo fare quella così lì“. Vedi? Come andare lontano, come viaggiare… Noi non vedremo tutto il mondo, creperemo prima. Lo so, non è bello da dire. “A chi è sensibile non glielo dire“. Ma anche sticazzi.
D: Ci sono due pezzi dei Bachi Da Pietra che ci hanno colpito, uno è Apocalinsect e l’altro è Tito Balestra, perché sono quasi due pezzi rap. Abbiamo un po’ fantasticato su un disco rap dei Bachi dei Pietra…
R: Anche Habemus Baco è un pezzo rap. Il rap è musica nera: la musica nera rientra nelle mie corde, e quindi ogni tanto lo uso.
D: E ascolti rap? Ti piace?
R: Ascolto rap, trovo ridicolo quando ossessivamente batte sugli stessi temi: “c’ho più soldi di te, io sono più figo di te, ho più flow di te, sono meglio di te, perché tu sei una merda e io sono un re“. Non è quello il rap che mi interessa, ma mi interessa e mi piace molto il rap, ed è una musica che ascolto molto volentieri. Ed è l’unico tipo di musica che riusciva negli anni ottanta, agli albori, in qualche modo ad intercettare i miei gusti, nonostante io fossi un metallaro ortodosso. Infatti anche il rap ultrapop degli anni 80, tipo Cameo, o le cose che sentivi in discoteca, quelle cose lì dicevo “Cazzo ma quella roba mi piace!“
D: Quindi non è così improbabile un disco rap dei Bachi Da Pietra.
R: No. Adesso i Bachi Da Pietra hanno una cifra stilistica ormai così marcata, che penso continuerò sicuramente sulla linea Giovanni Succi per dare fiato a perversioni diverse, tra cui potrebbe esserci questa. Ho già molti pezzi pronti che però sono così intimi a questo punto che non riuscirebbero a stare nel mazzo coi Bachi Da Pietra. Per discorsi più intimi occorre uno strumento diverso del quale mi faccio carico completamente con nome e cognome, punto. Certo, sarà un problema etichettarmi, ma non è un problema mio.
D: Ci sono mai state canzoni uscite come Bachi Da Pietra che avete preferito realizzare con altri progetti?
R: No, no, ci sono canzoni che appunto – come tutte le canzoni dei Bachi Da Pietra che nascono da me – che ho sentito stridenti in una veste Bachi Da Pietra e mi son detto “O queste canzoni qua le lascio da parte, ma non capisco per chi, oppure ci do dentro su questo altro versante” che comunque ormai è aperto, perché comunque con Lampi Per Macachi dichiaro apertamente le mie radici cantautoriali italiane quali sono, perché sono quelle e non altre. Ed è su quel versante che intendo proseguire e quindi mantenere questi due binari molto diversi. Non etichetterò lo stesso vino con due etichette diverse: sarà un vino diverso, quindi è giusto cambiare etichetta.
D: E com’è e qual’è l’apporto o la reazione di Bruno Dorella al pezzo primario appena scritto nei Bachi Da Pietra? C’è mai stata una volta in cui ha bocciato un pezzo? O criticato il testo, per esempio?
R: Beh, questo devi chiederlo a Bruno!
Bruno: Può capitare che io dia delle opinioni. Tendenzialmente rispetto molto il pezzo come me lo presenta Giovanni, perché comunque è lui lo scrittore dei Bachi da Pietra. Io nei Bachi sono ufficialmente il batterista e basta e mi piace molto questo ruolo di arrangiatore. Però anche sulla batteria Giovanni da molte indicazioni. Tra l’altro nel periodo iniziale dei Bachi da Pietra, quando il mood era più cupo e sommesso, suonare con Giovanni mi ha insegnato molto, soprattutto a diradare le figure ritmiche che facevo. Famose le volte in cui mi diceva: “Fai di meno, fai di meno” e io dicevo “Meno di così non si può fare“. E invece si poteva e funzionava meglio. Adesso che siamo in una fase più rock tendo ad assecondare il meglio possibile i pezzi che lui porta. Può capitare che io dica qualcosa sui testi, ma molto raramente, e sulla musica ci sono momenti in cui ci scambiamo delle opinioni, ma comunque tendenzialmente mi piace il 99,9% di quello che mi presenta. Non saremmo un duo da undici anni sennò.
Giovanni: Le osservazioni di Bruno sui testi, quando ci sono, sono sempre puntualissime, precisissime e sempre molto molto utili. Ne cito una in particolare: nel testo di Black Metal Il Mio Folk, che è un testo chilometrico che ho scritto e riscritto centinaia di volte, mi era sfuggita una rima di una banalità disarmante che era “storia/memoria“, che Bruno mi ha subito sgamato. Allora ho preso la frase e l’ho completamente ribaltata, dicendo la stessa cosa che avevo intenzione di dire ma in un altro modo. L’italiano ti permette questo gioco straordinario: puoi dire la stessa cosa in venti modi diversi. Per questo lo stile conta, proprio perché hai una tavolozza piena di colori: sta a te scegliere che colore dare.
D: Abbiamo una curiosità. Ci interessa sapere cosa è successo con Jason Molina, nel 2007, quando avete fatto qualche data assieme in Italia. Su internet si trova veramente poco a riguardo, forse perché non era ancora l’era dei video coi cellulari. Come è nata la collaborazione e perché? E come è andata?
R: Abbiamo aperto per lui per un concerto al Bronson ed è stato abbastanza folgorante per entrambi, tanto che addirittura durante il soundcheck ci aveva già proposto di fare un pezzo assieme alla fine del concerto. Ovviamente lo abbiamo fatto, onorati. Ci hanno poi detto che non era una cosa che lui facesse abitualmente, anzi era una cosa abbastanza eccezionale che si appassionasse così tanto al gruppo di apertura. Poi siamo andati a bere assieme, è stata una bella serata, ma ci siamo lasciati pensando che nulla sarebbe successo; invece è stato lui a proporre alla sua agenzia di fare un tour con noi in Italia. Mi sembra che lui stesso avesse già proposto il tour di tre date con pezzi completamente improvvisati, è stata proprio un’idea sua. è stato fantastico: abbiamo fatto tre concerti suonando per un’ora consecutiva, liberi, senza nessuno schema. Si partiva con un tempo, Giovanni e Jason ci entravano con le chitarre e si alternavano abbastanza naturalmente alle voci fra italiano e inglese.
Tra l’altro abbiamo anche registrato in studio un pezzo, che non è mai uscito come doveva uscire purtroppo, perché era un bel pezzo e ci avevamo lavorato bene. Doveva uscire per una serie di split, una di quelle tante cose che tramontano prima di nascere, ed è finito su una piattaforma un po’ secondaria, una specie di compilation benefit per la famiglia Molina. Poi però avevo letto che l’etichetta discografica invitava a non fare cose simili, perché erano uscite tante di queste iniziative, che non ho mai capito se quella a cui avevamo partecipato era una di quelle buone o una di quelle meno buone. Però fatto sta che quel pezzo c’è, è bello ed è una testimonianza molto bella, ma non è mai uscita su un supporto fisico.
D: Bruno, abbiamo letto che curerai il Transmissions Festival quest’anno. Qualche commento sui nomi che son stati già confermati?
R: Un paio di cose che sono certe e – cascasse il modo – succederanno, sono delle cose sconosciute. Vi segnalo questo gruppo che si chiama Feldermelder, svizzero, che nessuno conosce perché hanno girato pochissimo, ma quando lo vedrete capirete perché saranno lì. Un’altra cosa che si farà di sicuro si chiama “Azdora”, di cui Stefania ?aloS degli Ovo cura la parte musicale, ma che in verità è uno spettacolo teatrale di Marcus Horn, un regista svedese piuttosto importante. Fondamentalmente il concept è che si prendono queste azdore, queste cuoche romagnole cape famiglie di retaggio matriarcale romagnolo e le si fanno suonare in chiave black metal / noise. Da qui Stefania e il fatto che questo retaggio matrilineare le appartienga e le piaccia. In questo caso ci sarà solamente il concerto e non la parte teatrale della questione.
D: Giovanni, abbiamo letto che gli Uochi Toki stanno facendo una serie animata e che tu sarai una voce. Ci spiegheresti meglio?
R: Io sono LA voce. [ride] Ci sarà un crowdfunding che partirà in autunno, quindi non vi posso anticipare molto. Si tratta di una serie fatta in animazione 3D, la sceneggiatura è di Napo, la musica è di Rico e la voce è la mia. Quindi io leggo i testi e le trame che Napo scrive. Abbiamo già registrato sette puntate ed è molto bella: Napo è un visionario straordinario, ma non posso permettermi di parlare del suo lavoro e del suo progetto. Sostanzialmente quando ci troviamo a registrare la situazione è la stessa de La Morte [ndr: il suo progetto con Rico Gamondi degli Uochi Toki], cioè siamo io e Rico e ogni tanto c’è anche Napo. La Morte vera e propria però, come brand, non licenzierà niente di nuovo, a breve… ma sapete, la morte è sempre in agguato. Non sai mai quando arriva.
[Artwork by The Giant’s Lab; handmade silkscreen poster, 48 copies;
2 colors on graphite paper, signed and numbered, 50×70 cm]
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